Cosa fare per recuperare il pagamento di un lavoro svolto?

Viviamo in tempi difficili, è noto. Le persone più anziane dicono che sia sempre stato così però, la sensazione che fare impresa non sia mai stato così difficile come nell’ultimo decennio, è ampiamente condivisa. Il lavoro è poco e lo si deve cercare anche a costo di abbassare al minimo i margini di guadagno.

Dopo aver fatto già molta fatica a portare a casa una commessa, la cosa peggiore poi è la difficoltà – e a volte l’impossibilità – di incassare tutto il pagamento dovuto. Colpa del denaro che non gira o dei clienti che, pur avendo i quattrini, approfittano della situazione contingente per ritardare i pagamenti. Non esiste un modo sicuro per evitare questo problema o meglio ci sarebbe, ma scapperebbero tutti i committenti; però possono essere mossi alcuni passi per minimizzare il rischio, ovvero per cercare di non lavorare gratis.

Chi bene inizia è già a metà dell’opera

Bisogna essere subito chiari: il presupposto fondamentale per poi ricevere il compenso pattuito al termine del lavoro svolto è che il rapporto tra cliente e fornitore sia di tipo contrattuale. Questo significa che ci debba essere un documento – chiamato contratto – che deve avere alcuni requisiti obbligatori ai sensi dell’art. 1325 del Codice Civile, quali:

  • l’accordo tra le parti;
  • la causa;
  • l’oggetto;
  • la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità.

Senza entrare troppo nell’ambito del diritto privato, il fornitore di beni e/o di servizi fa in modo di redigere un documento in cui specifica:

  • in cosa consiste il lavoro che è chiamato a fare (il cosiddetto “scopo di fornitura”);
  • quali sono i materiali che andrà a fornire e cosa invece esula dallo scopo di fornitura (le cosiddette “esclusioni”);
  • il prezzo offerto o concordato tra le parti per la fornitura di beni e/o servizi;
  • i termini di pagamento, cioè quanto e quando dovrà essere pagata l’opera e/o il bene fornito.
Il contratto

Il contratto deve essere sottoscritto dalle parti, ovvero sia dal cliente sia dal fornitore; a volte tale documento non è altro che l’offerta economica che il fornitore invia al cliente e che quest’ultimo sottoscrive per accettazione. Lo scopo principale del contratto è chiarire tutti i punti essenziali dell’opera; nel settore dell’impiantistica elettrica, ad esempio, non si deve avere la presunzione di credere che il committente capisca esattamente ciò che l’impresa stia dicendo, né tantomeno che il fornitore comprenda quello che il cliente stia chiedendo, a maggior ragione se è un privato.

Esiste una barriera linguistica: da una parte vi è sicuramente un tecnico (il fornitore), dall’altra potrebbe esserci qualsiasi tipo di individuo. È necessario, pertanto, scendere a un livello più basso, in modo da definire bene cosa si propone di fare e quanto costa, specificando che ciò che si dovrà fare in più o di diverso, potrebbe comportare un costo differente di quello stimato. Quando il contratto è sottoscritto dalle parti diventa un’obbligazione: per il fornitore a mettere in opera quanto contenuto all’interno del documento, per il cliente a corrispondere il prezzo pattuito alle scadenze concordate.

Tuttavia, per poter essere fatto valere in caso di necessità, il contratto deve essere fatto bene sia dal punto di vista tecnico sia formale; per quest’ultimo punto è consigliabile il supporto di un legale – almeno nella stesura del prototipo di contratto – in quanto i contratti seguenti potranno seguire lo stesso canovaccio. Se invece ci si ostina a lavorare senza schema contrattuale (in nero) sono ben conosciuti i rischi: oltre che in termini penali, recuperare i soldi è praticamente impossibile.

Giocare d’anticipo

Nel gergo sportivo “giocare d’anticipo” significa colpire una palla un attimo prima del momento in cui l’avversario si aspetti che venga colpita. Giocare di anticipo nel rapporto con un cliente significa prevedere, già in fase contrattuale, una tranche di pagamento prima ancora che inizino i lavori, ovvero chiedere un “anticipo” anche minimo (5%/10%). Molti magari si vergognano di chiedere soldi alla “signora Maria” senza neppure avere iniziato l’opera, ma l’anticipo – soprattutto se con bonifico bancario – ha due grossi vantaggi:

  1. Costituisce una sorta di impegno per il cliente. Una persona che si rifiuta di versare un anticipo seppur minimo probabilmente sarà anche quella che bisognerà rincorrere a fine lavori per recuperare il compenso dovuto.
  2. Un anticipo con strumento tracciabile dà informazioni su molte cose quali l’intestatario del conto da cui arriva il bonifico, il numero di conto e la banca di appoggio. Nel caso in cui si debba arrivare a un decreto ingiuntivo verso un cliente moroso e al conseguente pignoramento, si saprà già da dove partire.

È ovvio che non si possa avere lo stesso approccio con tutti i clienti. Nel caso di committenti storici con cui si hanno rapporti di lavoro continuativi, chiedere un anticipo non dà nessun valore aggiunto (conosco già il cliente e la sua banca di appoggio) e anzi potrebbe essere offensivo nei confronti della controparte; però di fronte a clienti nuovi sia di tipo privato sia business, tale modus operandi è lecito e prudenziale.

Una situazione tipo

Si consideri, ad esempio, l’installazione di un impianto fotovoltaico da 3 kWp, per un importo contrattuale pari a € 6.000 + IVA. Il cliente è un privato ed è nuovo per il fornitore, il quale non ne conosce né la serietà né l’affidabilità. Il fornitore ordina i materiali dal grossista e monta l’impianto; il cliente però procrastina il pagamento all’effettiva messa in funzione dell’impianto, ovvero alla posa del contatore da parte del Distributore (es. E-Distribuzione), senza la quale un impianto fotovoltaico non può essere lasciato acceso in parallelo con la rete.

Il Distributore però ha dei tempi tecnici normativamente stabiliti per attivarsi; intanto il tempo passa, il fornitore non ha ancora ricevuto soldi dal cliente e ha già pagato al grossista il materiale dell’impianto nonché gli stipendi delle proprie maestranze. Finalmente il Distributore posa il contatore di produzione e l’impianto fotovoltaico può essere esercito in parallelo con la rete; inizia il pressing sul cliente per i pagamenti, il quale ha avuto tutto il tempo del mondo per studiarsi come avanzare delle riserve sull’impianto montato per ritardare ancora i pagamenti.

Il nervosismo dell’impresa aumenta in modo vertiginoso quando si sente anche dire dal cliente: “fammi causa, ne riparliamo tra qualche anno”, dovendo anticipare pure i soldi del legale e sperando di essere ancora in attività a sentenza.

La soluzione

Lo scenario cambierebbe di molto se all’interno del contratto si prevedessero alcune scadenze di pagamento, come ad esempio: 1. anticipo all’ordine (5%/10% dell’importo totale); 2. termine installazione (70%-80% dell’importo totale); 3. allaccio alla rete (saldo). Specificando sempre che la mancata regolarità dei pagamenti comporterà la sospensione dei lavori poiché:

  • con la 1° tranche di pagamento (anticipo) si scremano i clienti di sicura inaffidabilità;
  • con la 2° tranche di pagamento (fine installazione) ci si ripaga i materiali ed il costo del personale. Se il cliente non paga, non si procede con l’iter di connessione, senza la quale l’impianto non può essere acceso.

Rimane sempre il saldo, da corrispondersi all’allaccio alla rete, che il cliente potrebbe comunque non pagare. Per questo l’impresa potrà fare ben, però quantomeno si parlerà di un importo residuo limitato (10%/15%) che rappresenta il margine di impresa, i costi sono già stati coperti.

La messa in mora

Di fronte a un cliente che (volente o nolente) è in ritardo con i pagamenti, usualmente si inizia con un approccio comprensivo – volto a capire le motivazioni che sono alla base del mancato incasso – per poi terminare con un atteggiamento aggressivo, solitamente condito con tono di voce alterato e offese ai limiti della querela. Mentre il primo atteggiamento è consono all’educazione, il secondo comportamento è superfluo e il più delle volte controproducente, perché non saranno le urla del fornitore a far cambiare la situazione sia nel caso che il committente non possa pagare sia nel caso in cui il cliente non voglia.

Molto più utile è procedere alla cosiddetta “messa in mora” del debitore, che costituisce un atto formale riconosciuto dalla legge e che rappresenta l’anticamera del decreto ingiuntivo. La costituzione in mora è disciplinata dall’art. 1219 del Codice Civile. Un debitore diventa moroso quando viene superato il termine contrattuale entro cui effettuare il pagamento di una prestazione o di un bene acquistato (ecco perché nel contratto tutti i termini e le modalità di pagamento devono essere bene esplicitate).

Cosa fare?

Perché il debitore possa definirsi “in mora” è necessario che il creditore lo inviti in forma scritta a effettuare l’adempimento contrattualmente previsto, indicando un termine. L’invito a pagare deve essere mandato con uno strumento idoneo che ne accerti la ricezione da parte del debitore, come una raccomandata A/R o una PEC. Per la costituzione in mora non serve un avvocato, l’impresa può fare in autonomia. È sufficiente che sia inviata una uno dei due strumenti disponibili al soggetto debitore dove si riepilogano i termini dell’obbligazione (es. citando il contratto, allegando la fattura insoluta, ecc.) e concedendo un limite di tempo ritenuto sufficiente per procedere al pagamento (es. dieci giorni solari consecutivi), oltre il quale l’impresa avrà la facoltà di “adire alle vie legali l’ottenimento di quanto spettante”.

Per esperienza, è molto meglio un invio per PEC che via raccomandata A/R per i seguenti motivi:

  1. una trasmissione per PEC è gratuita;
  2. la PEC è immediatamente consegnata nella casella del destinatario, senza ulteriori problemi. La raccomandata A/R, per esempio, può non essere ritirata e pertanto rimane in giacenza alle poste, con inutile perdita di tempo;
  3. la PEC ha certezza di contenuto, di spedizione e di ricezione, grazie a tutti i certificati di sistema.

È chiaro che la PEC trova dei limiti nel caso in cui la controparte sia una privato, per il quale tale strumento non è obbligatorio; in questo caso si dovrà ricorrere a una raccomandata A/R. Per i soggetti giuridici, per i quali vi è l’obbligo di PEC, invece non sussistono impedimenti.

Non si conosce l’indirizzo PEC del debitore? Basta andare sul sito del MISE ed è possibile recuperare le PEC di professionisti e imprese tramite codice fiscale e/o partita IVA. La PEC indicata sul sito del MISE non è più attiva? Beh, in questo caso si può presentare una segnalazione alla CCIAA e al comando locale della Guardia di Finanza, ma sembra che tale questione non sia all’ordine del giorno come priorità.

Ultima spiaggia

Come insegna la Direttiva Macchine, si può fare molto per minimizzare i rischi ma alcuni pericoli, per quanto identificati, non possono essere eliminati a meno di compromettere la funzionalità della macchina stessa. Allo stesso modo, pur avendo un contratto firmato con ben identificate le modalità di pagamento, pur avendo chiesto un anticipo, pur avendo proceduto alla messa in mora del debitore, permane il rischio residuo di non ottenere tutto il compenso pattuito in modo “stragiudiziale”.

Non rimane altro quindi che affidarsi a un avvocato, il cui primo passo sarà di chiedere all’impresa di recarsi presso un notaio per avere l’estratto autentico notarile della fattura non saldata con certificazione della regolare tenuta delle scritture contabili. Inizia così il procedimento che porterà al decreto ingiuntivo con i tempi tecnici dei nostri tribunali, la cui trattazione esula dal presente articolo. Torneranno però molto utili tutti i passi fatti in precedenza: come in una partita, chi ha le carte giuste e la sa giocare, vince la mano.

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