Family Business. Comoli Ferrari.

Le ragioni del cuore e…degli affari

Paolo Ferrari
Paolo Ferrari

In un’azienda di famiglia, occorre separare l’aspetto patrimoniale, con tutto quel che ne consegue, da quello gestionale. Parola di un giovane dirigente. Paolo Ferrari, classe 1980, è in Comoli Ferrari da oltre 10 anni e oggi ne è amministratore delegato. Come tutti sanno, l’omonimo nonno fondò l’azienda nel 1929 insieme a Stefano Comoli. E lui, figlio di Giampaolo, rappresenta la terza generazione: degli otto cugini della famiglia Ferrari, insieme a Margherita e Anastasia, vive la quotidianità dello storico distributore novarese.

E’ stato lasciato libero di fare le sue scelte di studio o di lavoro, a prescindere dall’azienda?

Mio padre ha sempre sperato che io diventassi medico, o comunque che mi occupassi di altro nella vita. Il motivo l’ho compreso una volta entrato in azienda: si tratta di un settore che impone notevoli sacrifici e lui, comprensibilmente, non voleva questo per me.

Come vi siete integrati, voi della terza generazione?

Margherita e Anastasia Ferrari sono le figlie di mio zio Giuseppe, che è mancato qualche anno fa. L’una si occupa di marketing, l’altra è entrata da più di quattro anni e si sta integrando da poco nell’ufficio acquisti. Io lavoro qui da dodici anni e ogni giorno mi ritrovo a scoprire e apprendere cose nuove.

Comoli Ferrari. Un’immagine con una parte della famiglia, in occasione dell’inaugurazione di una rotonda dedicata al nonno (cortesia foto: Comoli Ferrari)
Comoli Ferrari. Un’immagine con una parte della famiglia, in occasione dell’inaugurazione di una rotonda dedicata al nonno (cortesia foto: Comoli Ferrari)

L’essere parte della stessa famiglia infonde un senso di appartenenza anche sul lavoro?

Non posso che rispondere affermativamente, sebbene l’approccio alle problematiche e la propensione a delegare siano molto diversi di generazione in generazione. Chi ha fondato o fatto crescere l’azienda, le ha dato la propria impostazione. Per lui, non sarà mai semplice accettare un nuovo arrivato con un punto di vista diverso dal suo. Ma il desiderio di avere qualcuno a propria immagine, per quanto comprensibile, è un’utopia.

E’ possibile far convivere, integrare delle visioni che l’anagrafe rende differenti?

Confrontandomi con coetanei che vivono situazioni analoghe in termini di contesto familiare e professionale, ho capito che i problemi di fondo sono uguali per tutti, mentre l’approccio e l’eventuale soluzione possono cambiare radicalmente da una famiglia all’altra. Purtroppo, esistono realtà in cui i fondatori partono dal presupposto che nessuno sarà in grado di far meglio di loro. Per questo, preferiscono vendere o cessare l’attività, piuttosto che trasmetterla agli eredi. La cosa più difficile è accettare che qualcuno possa fare altrettanto bene, agendo in un modo diverso.

Paolo Ferrari (secondo da sx) con il padre Giampaolo, durante la prima presentazione ufficiale di REI Rete Elettrica Italiana
Paolo Ferrari (secondo da sx) con il padre Giampaolo, durante la prima presentazione ufficiale di REI Rete Elettrica Italiana

I legami affettivi sono compatibili con la meritocrazia in azienda?

Nelle famiglie al timone di un’impresa, è determinante tenere separato l’aspetto patrimoniale da quello della gestione. La loro sovrapposizione comporta dei rischi, poiché non è detto che l’erede “legittimo” in forza del proprio cognome abbia capacità specifiche per un determinato business.

Dunque, c’è spazio per figure preparate e motivate?

Fin dai tempi di mio nonno, l’impostazione della Comoli Ferrari è sempre stata “operativa” e non è un caso che lo statuto vieti la cessione di quote a qualsiasi titolo, se non in linea diretta dai genitori ai figli. Non ci sono passaggi a mariti, mogli o cognati, ad esempio, proprio per tutelare la gestione. Mentre per quanto riguarda il sottoscritto, solo il tempo ci dirà se è stata una scelta giusta.

I legami familiari possono essere considerati un’arma a doppio taglio?

Sì, sebbene molto sia da ricondurre alle singole soggettività. Ad esempio, sul lavoro mio padre ha mostrato un lato “diplomatico” del suo carattere, che mai avevo conosciuto in ambito familiare. Del resto, non è affatto scontato che tra padre e figlio ci sia un’intesa: tra parlarsi e ascoltarsi corre una notevole differenza, che a mio avviso rappresenta l’aspetto più complicato in un passaggio di consegne.

Nel suo ruolo, è possibile creare un rapporto paritario con i colleghi?

Più che in termini di paritarietà, ne farei una questione di educazione ed empatia, che prescindono dalle cariche. Altrettanto importante è delineare bene i ruoli, stabilire cosa è effettivamente possibile fare. Sebbene sia opinione molto diffusa che il capo possa dire quel che vuole, occorre guardarsene bene dal farlo, onde evitare danni. Ma è soprattutto in questo aspetto, dal Veneto alla Sicilia, che noto un diverso approccio a seconda delle generazioni. I giovani tendono a essere meno formali e autoritari, perché il loro standing e background culturale è molto diverso da quello di chi li ha preceduti.

Che effetto fa nel quotidiano avere un cognome “importante”?

Senza scavalcare la figura paterna, bisogna sapersi conquistare sul campo la propria legittimazione. Le mie prime soddisfazioni le ho avute proprio quando mi sono sentito chiamare Paolo Ferrari, e non il figlio di Giampaolo Ferrari. Ma scrollarsi di dosso alcune cose, resta difficile. Tuttora, c’è chi mi chiama ingegnere, come papà, ma io ho studiato economia!

 

 

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